venerdì 16 giugno 2017

Un tulipano in due

Solo arancio. A perdita d’occhio. E solo profumo. Così intenso da penetrare in ogni piccola fessura della più piccola casa del più lontano paese. Il campo di tulipani che ho davanti agli occhi è così: perfetto, preciso, esatto. I contorni sono netti e decisi. Le altezze sono identiche. Le fragranze si riconcorrono uguali a se stesse. Le tonalità sfumano allo stesso modo.

È bellezza? Sì.
È bellezza totale? No.

Perché tutto è uguale a se stesso. Tutto si ripete. È ridondante. Rispetta un ordine preciso e prestabilito. Niente fantasia, niente voci fuori dal coro. Niente è straordinario. Mi incammino e guardo fiore per fiore. Ognuno è solo un fiore. Da solo. Uno stelo, delle foglioline e tanti petali. Ma sempre da solo. 

Raccolgo due tulipani. Johan I e Johan II. Amo dare i nomi ai fiori. Li porto a casa e li metto in un vaso di vetro trasparente. La luce passa attraverso il cristallo e si riflette sui gambi. I gambi, verdi. Loro non li avevo nemmeno notati al campo. Vedevo solo arancione. E invece c’era del verde. Splendente, puro e netto. 

Solo che lì sotto nessuno lo nota. Lì sotto tutto passa inosservato, quasi inutile.
Sembra nulla. E invece è tutto. 

Il mattino seguente gli steli sono intrecciati. Aggrovigliati uno all’altro. E Johan I svetta più in alto, come se avesse scalato millimetro per millimetro l’aria e fosse giunto alla sua altezza, quella giusta. Il suo colore è cambiato. Sempre arancione, ma più intenso, più forte, quasi abbagliante. Il suo profumo è nuovo. Un solo bocciolo inebria l’intera stanza.

Mi avvicino, scruto bene gli steli attorcigliati. 
È Johan II a dargli la forza. È lui che lo sostiene in alto. È lui che gli trasferisce il su colore e il suo profumo. È lui che lo fa essere più bello.

Li tengo lì, sul tavolo della cucina.
Non ci sarebbe la bellezza del I senza la forza, la tenacia e il sacrificio del II.

È bellezza? Sì.
È bellezza totale? Assolutamente sì.

Johan Neeskens

Ho raccontato di
Johan Neeskens, noto come Johan II  per la sua contemporaneità sui campi olandesi con Joahn Cruijff, con cui appunto formava una delle migliori coppie della storia del calcio moderno. Talento precoce, esordisce in nazionale all'età di 19 anni l'11 novembre 1970 contro la Germania Est. Ottiene la sua consacrazione ai Mondiali nel 1974, quando si trasforma in un implacabile match winner: nella prima fase a gironi segna due gol; nella seconda fase a gironi ne realizza altrettanti aprendo le marcature contro la Germania Est e il Brasile. Alla fine risulta addirittura migliore di Johan I. 
Neeskens è in grado di giocare in ogni posizione del campo senza che il suo rendimento ne risenta. Caratteristica perfetta per giocare accanto a Cruijff, che un ruolo preciso non l’ha mai sostanzialmente avuto. In sostanza, senza Johan II non ci sarebbe stata tutta la potenza di Johan I. 

giovedì 25 maggio 2017

Diventare aria

«Dentro questa gabbia, dietro queste sbarre, al di qua del mondo che scorre, ci sei te. Intrappolato da te stesso, dal colore di quella pelle che ti hanno dato quando sei venuto al mondo, dalla cattiveria, dall’invidia, dal non volerti far volare in alto. Ma te sei anche la tua libertà, la via d’uscita, il rispetto per te stesso».

Rubin è all’angolo della sua cella. Il sole di fuori gli appare la mattina presto, entrando da quella finestra che riflette a terra solo lunghe e insuperabili righe. Lo guarda muoversi col passare dei minuti. Da sinistra a destra, fino al buio totale. 

Lui sa che il sole dovrebbe vederlo intero, una palla di fuoco sopra la sua testa che gli riscalda la faccia e gli fa strizzare gli occhi per la troppa luce. E invece è qui, ad accontentarsi del tiepido, dello sbiadito, del pallido. A non strizzare gli occhi, a non alzare lo sguardo, a non sentire il calore che gli passa attraverso, gli scalda il viso, le spalle e le mani. Quelle mani lì, che sono la sua forza e la sua condanna.

«Te sei la tua libertà, la via d’uscita, il rispetto per te stesso».

Si agita e cammina. Pensa. Spera. Ricorda. Ricorda quando era forte e bello, quando sul ring le persone lo incitavano, quando tirava pugni senza sosta, quando le sue braccia colpivano e le sue mani centravano l’obiettivo. Quando il suo avversario cadeva a terra e la sua potenza era sprigionata al massimo. Il talento e il sacrificio si incontravano.

«Te sei la tua libertà».

È all’angolo della cella. Non riesce a distogliere lo sguardo da quel muro che lo separa dal mondo, il suo mondo. Colpisce. Prima piano, poi forte, sempre più forte. Le mani sanguinano, fanno male, ma Rubin non cede di un millimetro. Sente la folla alle sue spalle. E allora picchia senza sosta, senza sentire dolore. L’intonaco bianco gli ricopre i piedi. Le crepe sul muro si fanno sempre più spesse, ed è lì che lui insiste, è lì che continua a dare pugni. La velocità aumenta. È sincopata. È serrata. È breve. 
Rubin diventa un turbinio. Un Uragano. 

Abbatte il muro.
È aria.
Respira accasciato sulle gambe. Sente il sole sulla schiena, alza lo sguardo e strizza gli occhi sorridendo. 
È libero.

«Te sei la tua libertà, la via d’uscita, il rispetto per te stesso».


Rubin Carter, detto "Hurricane"


Ho raccontato di
Rubin Carter, noto anche con il soprannome “Hurricane”, pugile statunitense naturalizzato canadese. La sua carriera di pugile si è svolta tra il 1961 e il 1966, ma Carter deve parte della sua notorietà all'essere stato accusato di un triplice omicidio, avvenuto il 17 giugno 1966 a Paterson, nel New Jersey: sottoposto a processo, fu condannato a due ergastoli ma fu scarcerato nel 1985, quando l'accusa rinunciò a muovere in giudizio una terza volta contro l'illegittimità processuale sollevata dalla Corte Federale sulla base di un possibile pregiudizio razziale subito da Rubin durante l'incriminazione.

giovedì 16 febbraio 2017

Sangue nero di calamita

È bastato un taglio. Sulla punta dell’indice destro. Niente di doloroso, niente di problematico o preoccupante. Eppure quella piccola ferita aveva cambiato la vita di Tommaso per sempre. La goccia di sangue che ne uscì, infatti, era nera. Non rosso scuro, non sangue pesto, non violacea. Nera. Il respiro gli si era bloccato in gola, gli occhi fissavano quella goccia che dall’indice colava sul palmo della mano per poi scivolare lateralmente fino a creare una piccola macchia sul pavimento. Non era riuscito a muoversi per almeno un paio di minuti. Immobile solo a guardare, fissare, domandarsi, capire.

Alla visita dal dottore era andato solo, e ora un po’ se ne pentiva. Aveva tirato fuori quella parola strana: μαγνήτης λίθος. Era greco, e lui il greco non lo aveva mai studiato. «È quello che hai nel sangue», aveva detto lapidario, senza commenti, senza intonazioni nella voce, senza spiegazioni. Solo un «non ne morirai, tranquillo». E perché? Chi lo aveva detto? Come poteva esserne così certo quel dottore che mai aveva visto una cosa simile?

Tommaso era confuso e spaventato. Non riusciva a concentrarsi. Sdraiato sul letto teneva ben stretto il pallone tra le braccia, quasi a voler trovare in lui la forza. Si alzava da quel materasso, in effetti, solo per andare agli allenamenti. Per dare coraggio ai suoi atleti, a quella squadra di ragazzacci che allenava da qualche anno prima. Ragazzacci che da qualche giorno, da quando il sangue nero era gocciato dal suo dito, sembravano più attenti a quel che gli diceva a bordo campo.

La squadra sembrava diversa. Gli atleti prendevano alla lettera tutto quel che Tommaso gli diceva. A ogni partita davano il massimo. Anzi, più del massimo. Lui parlava, loro ascoltavano. Col cuore in mano. Coll’amore di un figlio per un padre. Con la devozione di uno studente verso quell’insegnante in grado di cambiarti la vita. 

E la squadra di Tommaso vinceva. Sempre più spesso, sempre di più, sempre in modo sregolato ma convincente. Ragazzacci erano e ragazzacci restavano, ma sempre attaccati corpo e anima al loro allenatore. Come piccoli spilli, tutti in fila, dritti, perfetti, allineati verso quel sangue nero di Tomasso, quell’oro attrattivo e in continuo movimento.
La loro era una squadra per cui le regole non esistevano, una squadra per cui le leggi erano fatte per essere infrante, una squadra per cui il lieto fine era impossibile. Ma non per Tommaso.

Tommaso e quei ragazzacci, infatti, il campionato lo vinsero. Contro tutto e tutti ma insieme, solo loro, la loro pazzia, coraggio, audacia, eroismo. Solo loro e il loro allenatore.

Sul letto di ospedale ripensava a quei giorni, a quel sangue nero pieno di μαγνήτης λίθος, che altro non era che polvere magnetica. La polvere che quei ragazzacci, matti ma di ferro, avevano seguito dando tutto. 

Quando gli occhi si chiusero definitivamente, il sangue tornò rosso prima di smettere di scorrere. 

Ma la sua forza attrattiva non si è mai esaurita.

Quel pulviscolo magnetico ha lasciato il corpo di Tommaso e in giornate di pioggia torna a cadere sulla terra. Richiama quei ragazzacci, li riporta dal loro maestro a riabbracciarlo e giocare insieme.

Sono calamita e ferro, anche nella morte.


Tommaso Maestrelli




Ho raccontato di
Tommaso Maestrelli, allenatore della Lazio nell’anno dello scudetto 1974. È stato il condottiero di  squadra “polveriera”, pronta a esplodere da un momento all’altro perché composta da giocatori dal carattere forte, spigoloso, in contrasto interno e un po’ pazzi. Giocatori per cui le regole esistevano solamente per essere infrante.
Eppure lui, Maestrelli, è riuscito a con tenacia e capacità a creare una squadra coesa e riconoscente, una squadra in grado di scendere in campo e vincere, una squadra dove lui era il faro indiscusso. Lui è la calamita, i giocatori il ferro che ne è costantemente attratto.Due anni dopo la conquistata del titolo di Campioni d’Italia Maestrelli muore di tumore al fegato. Ma la forza attrattiva verso i suo giocatori continua: pochi mesi dopo Luciano Re Cecconi muore in circostanze misteriose durante una rapina. E poi Giorgio Chinaglia che muore d’infarto nel 2012 e Ferruccio Mazzola nel 2013. 

mercoledì 28 dicembre 2016

Nuotare è un po' come volare

Dicono che ormai sono troppo grande. Dicono che ormai mi sono successe talmente tante cose brutte che non dovrei illudermi. Dicono che te non puoi esaudire i sogni di tutti. Dicono che ci sono delle cose irrealizzabili.

Eppure, col naso appiccicato sulla finestra l’altra sera, io ti ho visto. Sei schizzato come un lampo con in testa il tuo cappello rosso fermato da due grossi paraorecchie di lana, le renne e una slitta piena zeppa di regali. Non hai fatto in tempo a voltarti e vedermi, ma io ti ho aspettato. Natale era vicino e saresti dovuto ripassare da qui, dalla Grecia. Qui non siamo in Siria, qui non c’è la guerra, qui non ci sono bombe che scoppiano e ti fanno perdere una gamba.

Per dieci giorni sono stato immobile a quella stessa finestra. Da quando la prima stella appariva timida nel cielo di un azzurro sbiadito, a quando il sole ancora sotto l’orizzonte iniziava a spazzare via ogni astro con la forza dei suoi raggi. Non sei più passato, o se l’hai fatto andavi talmente di corsa che non sono nemmeno riuscito a rubare con gli occhi il tuo passaggio. Eppure non ho mai smesso di sognare, di sperare, di credere.

È la sera della vigilia. Tutti stanno scartando i regali. Io sono come sempre col naso puntato alla finestra, fredda e calda allo stesso tempo, in alternanza al mio respiro. Stringo nella tasca forte l'unico regalo che ho chiesto e ricevuto: uno specchietto. La luna in cielo è splendente, possente, luminosa. Dal montante bianco e rettangolare ti vedo, tiro fuori velocemente il mio specchietto, rifletto la luna e attiro la tua attenzione. Per poco non ti faccio cappottare con tutte le renne, lo so. Ma ora mi hai visto. Ora sei di fronte a me.

«Io vorrei solo tornare a nuotare»
«E perché non puoi?»
«Non lo vedi che sono senza una gamba?»
«Lo vedo. Ma lo stesso, perché non puoi? Vieni con me, ti insegnerò che tutto è possibile»

Sono tra le stelle. Volo, o meglio nuoto in questo cielo notturno. Muovo le braccia e anche la gamba. Sono leggero, soave, delicato. Non sento mancanze. Non mi sento amputato, menomato, mutilato. Mi sento come un uccello e un pesce allo stesso tempo.

Te mi sei accanto e mi sorridi. Mi incoraggi perché ora nulla è impossibile.

Adesso sono qui con la torcia Olimpica in mano, attraverso il campo profughi greco dove migliaia di persone come me sono scappate al terrore della guerra. E tra poco sarò su quel blocco di partenza, con la mia gamba, la mia unica gamba rimasta.
Chiuderò gli occhi, immaginerò di essere tra le stelle, sognerò di volare, mi sentirò leggero ed elegante.

Perché ora so che i sogni si avverano, grazie a te Babbo Natale.

Ibrahim Al-Hussein



Ho raccontato di 
Ibrahim Al-Hussein, nuotatore paralimpico che all'ultima manifestazione di Rio ha partecipato con la squadra dei Rifugiati. Nato in Siria 27 anni fa, durante questa interminabile guerra ha persona una gamba prima di partire a bordo di un gommone alla volta della Grecia. Ha partecipato nei 50 e nei 100 metri stile libero, ma è diventato talmente il simbolo di una popolazione in costante fuga da guerre e terrore che è stato uno dei tedofori. Con lui la Torcia Olimpica ha attraversato il campo dei rifugiato di Eleonas ad Atene.

I gesti del nuoto sono i più simili al volo.
Il mare dà alle braccia quello che l'aria offre alle ali;
il nuotatore galleggia sugli abissi del mondo.

Erri De Luca 

Pubblicato su 1000 cuori Rossoblu

martedì 20 dicembre 2016

Scusa

Alzo le mani. Mi volto a destra e a sinistra. Sono disarmato, sono sconfitto, sono sotto accusa. Non riesco a mandare la palla in rete. Una maledizione. Un incantesimo. Ogni passaggio è fuori misura, ogni appoggio scarso, ogni tentativo di tiro goffo. 

Sono in mezzo al campo, sperso e solo. Alzo gli occhi e vedo il pubblico, i tifosi, le bandiere che sventolano in un’onda minacciosa. Mi odiano. Lo sento, lo percepisco. Mi odiano. Sono un attaccante che non serve a nulla, incapace, inconcludente.

Come faccio ora? Cosa faccio? Come riconquistare la loro fiducia e in fondo anche la mia?
Le mie braccia si alzano al cielo, il mio corpo ruota di trecentosessanta gradi. Chiedo scusa.

Chiedo scusa per i passaggi sbagliati.
Chiedo scusa per i movimenti lenti. 
Chiedo scusa per i gol mancati.

E improvvisamente il mio corpo torna caldo, pronto a scattare, a farsi trovare al posto giusto. Intercetto il passaggio del mio compagno e la palla va in rete. Da bozzolo a farfalla. Da incapace a idolo. Da sconfitto a vincitore.

Quel caldo al corpo non ha più smesso di avvampare. Mi ha preso pian piano ogni centimetro. Dai piedi che avevano mandato la palla in rete, fin sulle braccia che si erano alzate in alto a chiedere attenuanti, per arrivare alla testa e agli occhi.

Ora è tutto buio e sento solo le tue parole. «Torna».
Ma sono bloccato, ora come allora. La paura mi terrorizza. L’oscurità mi accerchia e i demoni non mi lasciano mai solo. Buio, buio e solo buio.

Sono fermo nel salone di casa. Dovunque mi volti inciampo e sbatto. Non riesco a mettere tre passi di fila. E la tua voce, oh la tua voce, che tortura per me. Ma col passare dei giorni diventa più fioca fino a scomparire del tutto. Eppure non mi sento più libero, non mi sento più tranquillo. Mi sento solo odiato, ora come allora.

E quindi chiedo scusa.

Chiedo scusa per i treni non presi.
Chiedo scusa per i dubbi paralizzanti.
Chiedo scusa per gli abbracci mancati.

Il corpo con calma si raffredda, fino a diventare ghiacciato. Ma mi muovo, finalmente, c’è luce e mi incammino verso di te. Hai gli occhi felici, figlio mio, perché finalmente sono tornato. Siamo insieme.

Chiedere scusa è coraggio e amore.


Carlo Petrini
 Ho raccontato di
Carlo Petrini, calciatore tra gli anni sessanta e settanta. Ha giocato con il Lecce, il Genoa, il Milan, la Roma e il Bologna solo per citare alcuni dei club. L’episodio di cui si parla nel racconto è avvenuto quando Petrini militava con la Roma e precisamente durante la partita con la Sampdoria. Dopo una serie di clamorosi gol mancati e passaggi sbagliati, il calciatore alza le mani verso il pubblico e chiede scusa. Pochi minuti dopo segna il gol che fa vincere la Roma e il rapporto tra Petrini e tifoseria torna a essere idilliaco.
Pochi anni dopo, torna agli onori della cronaca per il suo coinvolgimento nel giro di calcio scommesse e per la denuncia che lo stesso calciatore fa nei confronti di un sistema di doping che durante quegli anni aveva portato alla morte molti giocatori. Ma il fatto più eclatante è la malattia del figlio Diego, colpito da un tumore al cervello e in fin di vita, che affida ai media il suo appello per poter riabbracciare il padre che nel frattempo, travolto dai debiti, era fuggito in Francia. Petrini non torna, terrorizzato dalla possibilità di essere ammazzato e Diego muore.
Qualche anno dopo affiderà a un libro di poesie questo momento drammatico della sua vita.
Una forma grave di glaucoma lo colpisce poco dopo, tornato in Italia, e lo porta alla quasi completa cecità. A detti dei medici molto probabile è la correlazione tra glaucoma e pratiche di doping ricevute durante gli anni da calciatore.
Muore nel 2012 a 64 anni.Da leggere “Nel fango del dio pallone” (KAOS edizioni) dove Petrini denuncia le forti pratiche di doping di quel tempo.

Pubblicato su Storie del Boskovhttp://www.storiedelboskov.it/

martedì 22 novembre 2016

Lui e il mare

C’era un tempo in cui uomini e mare erano in guerra.
C’era un tempo in cui non esistevano i piedi bagnati dall’acqua, lo sguardo rivolto al blu, la pacificazione dell’orizzonte che non finisce, il ristoro, la beatitudine, il benessere generato dall’incontro di questi due elementi.
C’era un tempo in cui tutte le case erano arroccate sulle montagne, lontane dal mare in perenne tempesta.
C’era un tempo in cui il colore dell’acqua era composto da scie fosforescenti, dolorose e desolanti.

E poi c’era lui. Piccolo ma già determinato.
Lui che si avvicinava ogni giorno di un passo e parlava. Dialogava col mare, con le onde alte e terribili che tutti vedevano ma soprattutto con quel che c’era sotto e che solo lui percepiva. Parlava con la profondità. Con la rabbia che giorno dopo giorno era andata aumentando. Col dolore di quell’abbandono, di quella presunzione di poter fare qualsiasi cosa di lui, del mare. Parlava con chi soffriva di questa distanza eppure aveva paura a colmarla, a tornare tranquillo e pacifico nel farsi ammazzare.

Lui lo capiva il mare.
Lui sapeva come farsi perdonare, anche se non era lui che lo aveva tradito, inzozzato e abbandonato. La sua umiltà, la sua capacità di ascolto e comprensione gli avevano permesso di fare ogni giorno un passetto verso di lui. E ogni giorno le onde diminuivano di un centimetro, fino a diventare quasi impercettibili e non più angoscianti.

Aveva messo un piede in acqua. Per la prima volta uomo e mare tornavano a sfiorarsi. Per la prima volta Enzo sentiva il piacere di stare senza scarpe, i pantaloni arrotolati al ginocchio e le dita allargate a cercare di far penetrare quella sensazione di vita piena, profonda e vera fin dentro le vene. Una lacrima era caduta in acqua e si era persa nel mare, o meglio era diventata mare essa stessa.

Ecco quel che voleva per lui: sprofondare nel mare.

Non gli bastava quello sfiorarsi, quell’accontentarsi. Tutto il suo corpo doveva immergersi, godere di quel piacere profondo che era riservato solamente ai suoi piedi.

E così, un passo alla volta, chiedendo il permesso, Enzo si era fatto avanti, ed era andato sotto, nelle profondità che fino ad allora aveva solo ascoltato e ora poteva anche vedere. Era andato a comprendere quel lamento fioco ma sempre vivo, quel dolore legato al degrado.

La magia era che doveva arrivava lui le strisce fosforescenti sparivano.
Enzo accarezzava il mare e lui tornava a essere blu. Profondo e splendente.

E allora ogni volta Enzo faceva un passo in più. Andava sempre più in basso, a ripulirlo, a coccolarlo, a capirlo. Senza mai mancargli di rispetto. Senza pretendere, senza invadere, senza occupare, senza modificare. Passava, sfiorava, amava e poi risaliva in superficie. Col mare negli occhi. Con la gioia di chi ama ed è amato. Con il desiderio di chi sa di essere desiderato. Con l’umiltà di chi sa di non poter diventare una cosa sola con l’altro. Con la fragilità di chi soffre quando si è lontani ma con la forza di chi sa di ritrovarsi. Sempre.

Ora è sulla sua collina.
Guarda il mare calmo. Blu.

Si parlano ancora, tutti i giorni. Ma si amano a distanza.
Enzo ha il mare nel cuore ma non può diventare acqua.
Il mare ha Enzo nel suo profondo ma non può permettere all’essere umano di conoscere tutti i suoi segreti.




Ho raccontato di
Enzo Maiorca, tra i più grandi apneisti di tutti i tempi. Detentore di diversi record mondiali di apnea, inizia a nuotare all’età di quattro anni. Il suo avvicinamento a questo sport è legato all’impresa di a Raimondo Bucher da Ennio Falco e Alberto Novelli (campioni di caccia subacquea) che toccano i -41 metri di profondità e suggestionano in maniera definitiva Enzo.
Nel 1960 è lui a strappare il titolo al brasiliano Amerigo Santarelli toccando i -45 metri. Tra un record conquistato e uno perso, Enzo arriva a toccare i -101 metri nel 1988, anno in cui si ritira dalle competizioni.
Famosa resta la diretta Rai del tentativo di record a 90 metri. Enzo sbatte letteralmente contro un sub, Enzo Bottesini, e torna in superficie imprecando. La Rai, per la prima volta in diretta per un evento del genere, non riesce a staccare immediatamente l’audio e i vari turpiloqui di Enzo vanno in onda, costandogli due anni di interdizioni dalla televisione. 

mercoledì 9 novembre 2016

Sospiri finiti

Ho un  numero limitato di respiri. Di sospiri poi, ancor meno. Li faccio tutti lentamente, con cadenza regolare. Dispiaceri o piaceri per me sono proibiti. Se la mia vita fosse tracciata come quando si fa un elettrocardiogramma, sarebbe piatta. Nessun picco, né in alto né in basso. La chiamano tranquillità.

Quando gioco con i miei cugini, gli unici ammessi a casa mia, e solo per poche ore, mia mamma mi ripete all’infinito di stare calmo, di non eccitarmi troppo, di non lasciarmi trasportare dalle emozioni. E loro, poveri, sono istruiti allo stesso modo. Si annoiano, lo vedo, lo percepisco. Una volta mi hanno proposto di giocare ai pirati, di nascosto. Mi hanno messo un’armatura di cuscini: sopra, sotto, di lato, in testa e perfino sui piedi. Tutto il corpo era protetto da uno strato morbido. Pensavano che così sarei stato protetto. E invece al terzo colpo di baionetta, ho fatto tre lunghi respiri ravvicinati e son caduto a terra. Mi sono risvegliato la mattina dopo. La faccia di mia mamma tra il preoccupato e l’arrabbiato (più la seconda, a dire il vero). I miei cugini banditi da casa per tre mesi.

Quella volta ho perso quattro giorni di vita. Ma che divertimento.

I miei cugini tifano Inter. A loro è concesso tifare, guardare le partite la domenica, arrabbiarsi e gioire. Io conosco il calcio solo attraverso i libri, i vecchi ritagli di giornale di mio papà. Ma non ho mai visto una partita. Li sento parlare. E sento un nome: «Mazzola». Il mio respiro si fa più serrato ma resisto: «Mazzola? Ma chi? Come? Non era morto? E Superga?». Per un istante ho pensato che mi avessero preso tutti in giro, che il Grande Toro fosse solo un’invenzione di mio padre, per raccontarmi qualcosa di più eccitante la sera, di nascosto da mamma.
«Ma questo è il figlio», esclamano in senso di sberleffo i miei cugini.

Ci siamo messi d’accordo io e loro. Devo vedere una partita di Mazzola. Devo riuscire a piazzarmi davanti un televisore a fare il tifo.

Tutto è programmato. È un pomeriggio d’inverno, è festa, i parenti sono in cucina a discutere davanti a una tazza di caffè. Noi accendiamo di nascosto la televisione, il volume impercettibile (e poi anche al massimo non sarebbe in grado di sovrastare le urla stridule di mia zia). L’Inter è a Budapest, gioca la partita di Coppa dei Campioni contro il Vasas. Siamo in ritardo e i nero azzurri hanno già segnato il primo gol. Ma a me poco interessa. Io voglio solo vedere Mazzola, il figlio.

Lo cerco disperatamente con gli occhi. Lo vedo. Elegante, longilineo, raffinato. Lo immaginavo proprio così. Ma vederlo è tutt’altro. «Mi bastano dieci minuti e poi spengiamo», avevo detto ai miei cugini. Invece i minuti passano e la voglia di continuare a vederlo danzare non si assopisce.

Inizia la sua rincorsa da metà campo e con agilità si avvicina alla porta avversaria. I miei cugini cominciano a staccare il sedere dal divano, un pezzetto per volta, le braccia rivolte sempre più verso il televisore. Il mio cuore batte all’impazzata, lo sento in gola. E il fiato è ogni istante più corto.
Mazzola supera i difensori, uno dopo l’altro. E lì arriva il primo «Tira» sussurrato dai miei cugini, paonazzi per lo sforzo di non urlare. Supera anche il portiere e il secondo «Tira» sale di tono, accompagnato da movimenti felini verso il televisore. Ma Mazzola è un signore, aspetta che il portiere rientri e solo in quell’istante, nell’attimo esatto in cui il mio fiato si sta per spezzare, finito, esaurito, all’ultima goccia… tira. E segna.

È un istante, anche se sembra un’eternità. Urlo «Gol», non so come, non so perché. Ho terminato il fiato a mia disposizione. Ma che divertimento.




Sandro Mazzola


Ho raccontato di

Alessandro Mazzola, detto Sandro. È considerato uno dei calciatori italiani più forti di sempre, campione europeo nel 1968 e vicecampione del mondo nel 1970. Figlio di Valentino Mazzola, vittima della tragedia di Superga con il Grande Torino.Sandro ha legato la sua storia calcistica all’Inter, prima come giocatore e poi come dirigente. Il suo gol più bello, e forse uno tra i più belli in assoluto, l’ha segnato al Vasas durante una partita di Coppa dei Campioni nel 1966. Parte da centrocampo, supera tutta la difesa ungherese, supera anche il portiere, si accentra ma non tira. Tutti quelli che assistono alla partita non fanno che gridare all’unisono: «Tira, tira!!». Ma lui ancora non lo fa. Aspetta addirittura il rientro del portiere, fino a quando non infila un pallone nell’angolo alla sinistra del difensore estremo del Vasas. È gol, uno dei più entusiasmanti di sempre.

Pubblicato su Storie del Boskov